Lo psichiatra Giuseppe D’Abundo sa quanto sia difficile oggettivare in risultati quantificabili gli effetti prodotti della proiezione sul sistema nervoso degli spettatori. Il suo metodo si fonda su alcune osservazioni cliniche raccolte durante le sue relazioni terapeutiche con pazienti nevrotici. Nelle sue note è evidente un approccio ancora positivista (che lo porta a credere nell’ereditarietà neuropatologica) e psicofisiologico: lo stato emotivo dei pazienti è il risultato in primo luogo di una stimolazione sensoriale, quindi di una conseguente percezione e infine di un’appercezione che conferisce alle percezioni attributi emotivi (eccitamento, dispiacere ecc.). Le “turbe nervose” possono essere indotte già a livello percettivo: il film aggredisce l’occhio, distruba la consueta percezione visiva con un “movimento vibratorio dell’immagine” talmente intenso da restare visibile persino ad occhi chiusi. Ma l’azione nociva del cinema si può generare anche in fase appercettiva, ossia quando l’identificazione e la sintesi dei dati sensoriali porta al riconoscimento di contenuti rappresentativi o narrativi disturbanti. Questi contenuti sono frequentemente legati all’onirico (il sogno del capostazione ), al fantasmagorico (le fiamme colorate), al magico e all’occulto (le “vere scene d’incantesimo”), al patologico e al violento (l’infanticidio), oppure racchiudono potenziali allusioni sessuali (i serpenti, le mani che palpano). Le concrete tracce storiche di queste visioni soggettive raccolte da D’Abundo sembrano quasi costituire l’oggettivo e impietoso risvolto “clinico”, la sintomatologia psico-sociale di quella coeva attrazione estetica di matrice dannunziana (ma non solo) per la rinnovata vita cinematografica del meraviglioso e del metamorfico. Gli effetti più gravi e frequenti di queste visioni consistono non solo nelle illusioni percettive (il cane che si trasforma in seprente) ma anche in vere e proprie allucinazioni, “ordinariamente visive” ma anche tattili e termiche: una sinestesia allucinatoria che costituisce l’inevitabile esito infrapsichico di quell’attività sovrapercettiva tipica della fruizione cinematografica. Il cinema incoraggia nella mente dei nevrotici la formazione di immagini eidetiche di tipo allucinatorio perché il film stesso è una macchina allucinogena: esso infatti produce, agli occhi di uno spettatore inesperto o di una coscienza impressionabile, “quadri allucinatori belli e formati” (un’ “allucinazione paradossale”, direbbe Metz). L’immagine cinematografica, sostiene D’Abundo, nasconde il suo “meccanismo di produzione”, ovvero la sua genesi tecnico-tecnologica, sostituendo la rappresentazione in absentia di “manifestazioni addirittura viventi” con la loro “incomprensibile” e quindi turbativa apparizione in praesentia.
L’immagine cinematografica, osserva l’autore, non provoca un trauma imediato, “al contrario, esplica silenziosamente la sua influenza”. L’allucinazione, in altre parole, si scatena a breve distanza dalla visione: il film si riorganizza nella mente dello spettatore allo stato di “dettaglio”, ossia nella forma di tracce mnestiche slegate dal contesto spazio-temporale del film . Queste tracce si depositano in una zona della coscienza che D’Abundo non precisa ma che si colloca senza dubbio oltre i limiti del conscio , dal momento che la riemersione del ricordo e l’attivazione del meccanismo allucinatorio subentrano nella fase ipnagogica (tra la veglia e il sonno o viceversa), quando lo spettatore ha abbassato quella che i filmologi chiameranno, molti anni dopo, la “soglia di vigilanza”. A conferma della natura subconscia o preconscia di queste immagini mentali vi è anche la non volontà e l’imprevedibilità del fenomeno allucinatorio, un’inquietante quanto probabile eventualità paventata anche da altri osservatori dell’epoca . Sorprende, nella descrizione di questa introiezione psichica delle immagini cinematografiche, l’analogia con la rflessione metziana sul percorso dell’eccitazione psichica . La mente, in tale processo introiettivo, è concepita da D’Abundo come una sorta di deamicisiano “cinematografo cerebrale” in cui il “bozzetto allucinatorio” del film diventa un contenuto latente che resta “fotografato nella zona visiva” per poi dare luogo ad una non più metaforica “proieizione corticale visiva”. 
Le immagini stimolano quindi in profondità l’apparato psichico, provocando reazioni che investono gli aspetti più profondi e inconsci della personalità. I distrurbi provati dai pazienti di D’Abundo rappresentano in fondo la forma clinicamente più “pura” di un trauma psico-percettivo socialmente assai più esteso, legato alle perturbanti novità del moderno: il nesso tra alterazione percettiva e modernità è per altro teorizzato dallo stesso D’Abundo, quando scrive che “gli effetti di qualsiasi projezione (sic) nei paranoici (…) non differiscono da quelli emergenti da tutte le conquiste recenti della scienza, come il telegrafo senza fili, i dirigibili, gli aeroplani, i raggi X, ecc.”. (Silvio Alovisio)